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Lo spettatore in sala

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Senza cappello. Occupiamoci subito della particolare situazione in cui lo spettatore viene a trovarsi nella fruizione del prodotto cinematografico, quindi comodo comodo in poltrona al di sotto dello schermo:  subisce la natura del film attraverso la successione di shocks (provocato dalle immagini in movimento ed in continuo cambiamento) che gli è propria, è tuttavia immerso in un luogo ove la propria esperienza, nel secolo della sua crisi (le nuove tecnologie di comunicazione uccidono  il cinema classico e gli aprono nuovi orizzonti), può essere rilanciata, e nello stesso luogo può abbandonare la realtà per rifigurare il mondo secondo l’immaginario.  E, nella sua fase classica (al cinema), lo spettatore osserva immagini dinamiche in un luogo davanti allo schermo, ed in un luogo insieme ad altri spettatori. È un occhio che osserva qualcosa e un occhio che osserva insieme ad altri occhi. Non solo, la sua visione è a sua volta la ripetizione di una precedente occhiata. La cinepresa osserva e registra. Cioè impressiona la pellicola. Essa è ad un passo da ciò che osserva, e questa pare una circostanza basilare, necessaria. E significa che il dispositivo è inevitabilmente implicato in quella realtà. Ne fa parte e ne condividerà il destino. Un’esperienza simile è vissuta dallo spettatore. Egli tende ad aderire a quanto assiste fino a proiettarsi in quella realtà, fino all’immedesimazione. E nel momento di maggiore intimità, avverte i due mondi fra i quali rimane sospeso: la realtà nella quale matura il suo sguardo e la rappresentazione filmica che è da lui osservata. Qual è allora il suo posto? Qual è la sua identità? Si tratta di individuare il nuovo statuto che la modernità sembra conferire al rapporto fra osservato ed osservatore. I due, come visto, sono legati da una relazione d’interdipendenza data dalla peculiare situazione fornita dalle distanze ridotte: entrambi calpestano lo stesso suolo, lo spettatore partecipa al destino dello spettacolo ma perde la sua posizione di vantaggio, fino a confondersi con esso . L’annullamento di ogni distanza produce sì intimità, complicità ma, al tempo stesso, mina le sicurezze e non lascia traccia dei punti di riferimento. L’osservatore è dentro il mondo osservato, ma quello non è precisamente il suo posto. La condizione che andrà delineandosi non prevede opposizione di ruoli o dominio di una parte sull’altra, bensì presenterà una sovrapposizione di presenze ed un intreccio di occhiate. Un compenetrarsi come si è detto finora, sulla base di un’illusione che può permettere la ri-figurazione del mondo, alla ricerca di un immaginario parallelo al reale. Lo spettatore è ormai privo di protezione e si ritrova immerso nel paesaggio offerto dall’illusione. Dentro ed addosso alle cose. Proprio come si dedurrebbe dall’ottica benjaminiana.

Nell’affrontare diverse forme di spettatorialità, è bene ricorre ad alcune pellicole, ognuna emblema di un’epoca, dove il protagonista è lo sguardo dell’osservatore .

Josh è al cinema. Siede su un palchetto a lato dello schermo. Lo spettacolo proiettato in quel momento è “Parisian Danger”, una sequenza in cui una donna balla il can-can. Il nostro spettatore, incuriosito, si alza dal palchetto e si avvicina allo schermo ed inizia a mimare goffamente la danzatrice, alla maniera di un bambino. Lo spettacolo successivo è “The black diamond express”: un treno in corsa si lancia in primo piano verso la platea. Il povero Josh ne subisce le più infelici conseguenze: non riconosce l’illusione e trova rifugio sul palco. Il terzo show si chiama “The country couple”, i cui protagonisti sono, appunto, un ragazzo ed una ragazza di campagna, che alla fine della breve sequenza si abbracciano. Lo spettatore Josh, nuovamente giù dal palco, stavolta perde il controllo di sé: alla vista dell’abbraccio si agita, si toglie la giacca, la butta per terra e si scaglia contro la proiezione come se volesse penetrarla, ma non farà altro che far cascare il telone rivelando, dietro di essa, la presenza dell’operatore dedito alla proiezione. I due vengono alle mani e nel farlo rovinano in terra.

Il film in questione è una pellicola del 1902 di Porter, Uncle Josh at the moving Picture Show, brevi sequenze che presentano uno spettacolo che invita il suo spettatore fino a fargli perdere il senno, in seguito al sovra-eccitamento dei sensi. La visione lo spinge all’abbattimento dell’esperienza filmica. Travolto dalla voglia di partecipare a quella realtà, finisce col travolgere il proprio statuto di spettatore. Mettendo da parte il potere ed il fascino dell’immagine cinematografica, l’elemento decisivo è dato dal forte senso di contatto che lega spettacolo e spettatore. Si fiancheggiano ed interferiscono l’uno con l’altro: le immagini sporgono verso di lui, gli si avvicinano fisicamente (nel caso del treno), lo ammaliano (attraverso le moine della danzatrice), gli offrono intimità (quella degli “amanti bucolici”); lui, d’altra parte, si mette in moto verso di loro fino a travolgerle. Praticamente l’oggetto dello sguardo stabilisce con lo spettatore un rapporto esclusivo, favorito dal suo ingigantirsi attraverso la specifica tecnica di ripresa (il primo piano).
Quello che viene a realizzarsi è il senso di contatto, talvolta estremo, ma che procura in ogni caso prossimità. Questa a sua volta implica stretta interazione, da parte dell’ingenuo Josh, il quale si sente in diritto di agire. Josh ha avvertito che quello che avrebbe chiamato “lì” non era altro che “qui” e viceversa. Tutto gli sembra un’”interno”. Tuttavia è illusorio: la realtà di cui è alla ricerca lo sventurato spettatore non è fattuale: è un mondo altro. Il confine esiste e resiste, ma non si vede, è impalpabile. In maniera estremamente ironica, il film di Porter consegna uno statuto sullo spettatore, lo qualifica e forse gli fornisce consigli: “Non comportarti da sciocco”, è solo illusione. Josh potrebbe rappresentare, in maniera estremamente ironica e burrascosa, l’essere davanti allo schermo.

Spostando l’asse sulla seconda natura dello sguardo realizzato nell’esperienza filmica, saltiamo circa due decenni, per incontrare John Sims e sua moglie Mary. I due assistono ad uno spettacolo di vaudeville. La cinepresa inquadra la coppia in primo piano per poi lentamente allontanarsene. E lascia scorgere decine e decine di uomini e donne che osservano il medesimo spettacolo. La coppia è ormai confusa tra la folla. Questa è la scena finale di The Crowd, un film del 1928 di King Vidor. Il film si congeda dal suo spettatore offrendogli l’immagine di altri spettatori in sala, a loro volta circondati da altri. La coppia viene calata dentro questa massa e con essa anche ogni altro presente. Ognuno è uno dei tanti. E finalmente avviene ciò che John, il protagonista, ha cercato di respingere per tutta la durata della pellicola: la fusione nella folla ovvero nella massa.

Come nelle disavventure di Josh, si presenta nuovamente la questione di una vicinanza e di una partecipazione. Il film di Vidor riflette sul rapporto folla-spettatore, singola postazione-ambiente. In particolare The Crowd parla della difficoltà del suo protagonista ad integrarsi nella realtà circostante. John non accetta di diventare uguale agli altri e questa convinzione lo conduce ad una deriva. Il suo problema sta nel calarsi nel mondo circostante, cercando di mantenere integra la sua posizione, intatto il proprio statuto. Cosa difficile, tanto fuori che dentro alla sala cinematografica, popolata da un pubblico, cioè persone che in fondo si ritrovano lì per lo stesso motivo, che sono accomunate dallo stesso scopo. Sia dentro al cinema che fuori dei suoi battenti, la resistenza di John si misura con un corpo sociale, dal quale sarà inghiottito solo per mezzo di un movimento di macchina, grazie ad una particolare ripresa che lo restituisce immerso nella sala. La fusione avviene ma si tratta di ben altra esperienza rispetto a quella dell’ingenuo Josh: mentre la performance del disgraziato spettatore avveniva all’insegna del rapporto fra chi guarda il film ed il mondo rappresentato sullo schermo, la pellicola di Vidor enfatizza il rapporto fra chi guarda il film ed il mondo circostante. I due assi convergono: lo spettatore di un film è sia soggetto scopico che soggetto sociale. Il soggetto scopico allenta i suoi vincoli sociali quando le luci in sala si spengono, quando invece queste tornano ad illuminarla il soggetto scopico diventa soggetto sociale in attesa dello stato scopico o in uscita da esso. Il confronto fra i due film lascia emergere anche altri aspetti: mentre Josh testimonia il fascino e la forza del richiamo di un universo fittizio, l’altro mostra le difficoltà e la fatica di stabilire relazioni sociali che non limitino la soggettività. La prima fusione è desiderata ma temuta, la seconda è temuta ma è doverosa.
Emergono due forme di spettatorialità: la prima evidenzia la sottrazione di cui si sente vittima l’osservatore che incautamente e spericolatamente provvede a riappropriarsene. La seconda evidenzia la difficoltà di stabilire relazioni sociali (che potrebbero livellare le soggettività) e, ciononostante la necessità di sentirsi inserito in un corpo sociale. Nel saggio avanza un’ipotesi, cioè quella per cui la temuta e doverosa fusione sociale sia un portato della prima fusione, quella con l’oggetto rappresentato: c’è un mondo di cui si vorrebbe far totalmente parte e che viene sottratto: sottratto dal dispositivo che offre solo rappresentazioni, e cioè sostituti di una realtà destinata a rimanere assente; e sottratto dal buon senso sociale, che irride chi desidera ciò che non può avere. E c’è un mondo di cui si può far parte, anzi di cui si deve far parte se si vuol essere dei soggetti sociali, ma per calarsi nel quale ci vogliono delle piccole spinte. Ebbene, la relazione imperfetta con il mondo rappresentato forse serve proprio a perfezionare la relazione col mondo circostante. La sottrazione di un oggetto del desiderio forse serve proprio a far desiderare un oggetto a portata di mano. Spettatorialità scopica e spettatorialità sociale attuano reciproche ed interne compensazioni . In pratica, nel corpo del pubblico si ritrova il riscatto negato dall’impossibile unità con la finzione della rappresentazione.

Un altro tipo di soggetto scopico è dato, parecchi anni più tardi ed in tutt’altro clima culturale (1966) dal protagonista di Blow Up di Antonioni. Il soggetto in questione presenta una triplice declinazione del proprio profilo spettatoriale: è sia soggetto che vede, sia soggetto che fa vedere (è un fotografo alle prese con la scoperta di un delitto), sia un soggetto visto. Insomma la sua performance si realizza nel contesto di una fitta rete di sguardi. E’ un osservatore che finisce nel suo stesso campo d’azione. E’ uno spettatore che si misura con lo spettacolo ma anche con l’ambiente, nel quale poi si smarrisce. Il “contatto scopico” diventa immersione in un ambiente dove la posizione spettatoriale si avvia verso una reciprocità di occhiate che ne segna anche la tendenza all’ambiguità. Anzi a corrompersi è proprio lo status di soggetto che svanisce nell’oggetto. E’ possibile indicare, attraverso l’esperienza scopica, filmica in particolare, lo status che la modernità conferisce all’osservatore: questo trova nello spettatore cinematografico qualcosa di più che una sua continuazione; vi trova la sua realizzazione esemplare. Del resto è davanti ad uno schermo che ci sentiamo “guardanti guardati”, dentro ad un mondo che non è più solo nostro, in comunione con un mondo che ci porta via .

Si arriva dunque ad una conclusione: nell’indagare i rapporti fra soggetto ed oggetto della visione emerge la rottura della soglia fra i due ed il crearsi di un’intimità (compenetrazione): in Uncle Josh si mostra la forza di attrazione conseguente alla prossimità e infine l’interazione fra chi siede in sala e chi si muove sul telone; The Crowd offre spunti per una riflessione su uno spettatore chiamato a far parte del proprio ambiente, in una manovra che da semplice soggetto scopico lo possa inserire come soggetto sociale. Blow Up presenta invece la possibilità di fusione fra spettacolo ed ambiente, entrambi territori attraversati da una rete di sguardi in cui lo spettatore sperimenta tanto il suo essere soggetto che l’essere oggetto. Non si può dunque parlare di un “teatro della visione” basato sulla presenza di un “vedente” e di un “visto” in opposizione. Non c’è fronteggiamento, ma un rapporto di forte reciprocità e complicità.

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